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Primi contatti

 Ricordo la prima volta che ascoltai la registrazione di un raga: era cantato da una donna dalla voce molto acuta e cristallina, Sunanda Patnik, era il 1988 e mi accingevo a fare una delle prime lezioni di yoga.
Quella voce trasportava melodie celestiali, si insinuò delicatamente dentro di me e capii immediatamente l’effetto che poteva provocare in tutto il corpo, accompagnando con la sua fluida circolarità il movimento delle asana e del respiro.
All’epoca cantavo da tempo nei cori, avevo iniziato a studiare privatamente canto antico e un bel giorno un amico, studente di sitar, mi informò che l’Istituto Interculturale di Musica Comparata, con sede a Venezia, avrebbe organizzato un corso di canto indiano.
(L’Istituto fu fondato da Danielu: musicologo francese che si occupò dello studio e della diffusione di questa cultura musicale ancora oggi conosciuta da pochi; lasciò molti dei suoi libri e manoscritti alla biblioteca della Fondazione Cini dove sono raccolti in una grande stanza dedicata a lui; lì possiamo ritrovarli e consultarli immergendoci così in ricordi e storie che hanno un sapore misterioso, lontano e antico.)
Sarebbe stato molto difficile per il mio stato famigliare pensare di andare in India a imparare la loro forma di canto e il fatto di avere la possibilità di studiare qui mi riempì di gioia.
Anni prima avevo passato lunghi periodi di tempo nel subcontinente indiano vivendo a stretto contatto con le famiglie che mi ospitavano e addottando i loro usi e costumi, la loro cultura mi era penetrata nell’anima e vivevo una nostalgia profonda ogni volta che pensavo ai colori e alle emozioni che quella terra così diversa e lontana mi aveva regalato. Per cui mi iscrissi immediatamente al corso di 15 giorni che si sarebbe tenuto all’isola di San Servolo ad un costo molto economico. C’era la possibilità di risiedere nell’edificio, un tempo ospedale psichiatrico e ora riadattato ad ostello, che offriva stanze comode con bagno e l’uso della cucina.
Arrivare all’isola da Venezia era sempre un po’ complicato poiché i collegamenti con la terra ferma erano ogni 3 ore; una volta arrivata, mi ambientai immediatamente in quel angolo di mondo  raccolto e meraviglioso; l’attracco del vaporetto era in prossimità della chiesa e dopo una passeggiata in mezzo al parco si arrivava ai due edifici destinati a noi. In classi diverse venivano impartiti insegnamenti di Sitar, Tabla e Canto Kial; conobbi  la mia prima maestra: Sangeeta Chatterji, figlia di Shankar Chatterji, il maestro di tabla che da anni insegnava ai corsi dell’IIMC.
La classe era numerosa, circa una quindicina di persone che venivano da tutta Italia; entrai velocemente con curiosità, entusiasmo e gioia nel mondo dei Raag, imparai ben presto a suonare il tampura e presi dimestichezza con le note e i primi fondamenti della musica hindustana, capii immediatamente che quella sarebbe stata la musica che mi avrebbe accompagnato per il resto della vita, quella forma cantata che da sempre cercavo e che mi avrebbe dato il benessere cui anelavo.
Le lezioni si svolgevano al mattino e al pomeriggio. Nel tempo rimanente avevamo il tempo di praticare e di fraternizzare con gli amici musicisti; passeggiando nel parco si vedevano, sparsi qui e lì, studenti intenti a suonare il proprio strumento ed era estremamente piacevole ascoltare scale e fraseggi che volteggiavano incrociandosi nell’aria. La sera, dopo cena ,  gli studenti più avanzati ci dilettavano con le melodie dei raga fino a notte fonda, si dormiva poco ma l’energia era sempre molto elevata.
Ricordo con nostalgia quel fantastico periodo e quell’isola incantata che ci ospitava. Non misi piede in terra ferma per tutti i 15 giorni, oltre alle lezioni e alla pratica mi dedicai alla gestione della cucina mentre i ragazzi andavano a fare la spesa anche per me.
Il mio inglese era pessimo, parlavo quasi niente e capivo un po’ di più, meno male ci si aiutava molto e quindi non fu un problema, anzi divenne l’occasione per lanciarmi con coraggio e tentare di comunicare in questa lingua.
Il ritorno alla vita di tutti i giorni fu particolarmente difficile, lavoravo gia da qualche anno e pensai che quei giorni trascorsi a cantare fossero le più belle ferie che avessi mai trascorso, era gia chiaro dentro di me che mi sarei dedicata il più possibile a praticare quest’arte che mi dava una pace mai provata prima.
Avevo aquistato il mio primo tampura a Sangeeta e cominciai a ricavarmi qualche tempo per dedicarmi alla pratica quotidiana fino a che presi la decisione di andare in India lo stesso inverno, non vi mettevo piede da sei anni e avevo una nostalgia implacabile; con molte difficoltà e determinazione riuscii ad organizzarmi e a partire per un viaggio di 15 giorni: il massimo che mi potevo concedere.

Rimisi piede sul suolo indiano nel febbraio 1992. Carica di ricordi e frastornata dalle emozioni che mi assalirono senza pietà arrivai a Benares dove un amico che studiava tabla mi aiutò a trovare una stanza e un maestro.
Pandit Hanuman Misra era stato un famosissimo cantate , quando l’incontrai aveva 86 anni, si aiutava con l’armonium e cantava di fronte a me in una stanza dove ragazzini e bambini assistevano curiosi alle lezioni; la riservatezza non è proprio un abitudine comportamentale indiana e mi abituai presto anche all’andirivieni di vicini e parenti che venivano ad osservarmi facendomi sentire una sorta di scimmia al circo. La mia prima esperienza nella guru sisa parampara (la tradizione che viene trasmessa oralmente dalla bocca del maestro all’orecchio del discepolo) fu spontanea e bellissima, allora non mi resi conto del dono prezioso che l’esistenza mi offrì spontaneamente, ero assolutamente all’oscuro di tutto ciò che riguarda la tradizione, so che la mia anima era soddisfatta e gioiva mentre stavo in fronte al guru che mi guardava amorevole con i suoi occhi profondi e saggi. Sentivo che era un’esperienza importante, capivo, senza che nessuno me ne avesse mai parlato, che  mi stava passando tutta la sua conoscenza e la trasmissione avveniva attraverso canali differenti da quelli conosciuti nelle relazioni con i maestri di canto occidentali; lui non parlava inglese, ma quello non era un problema perché dovevamo solo cantare; la trasmissione profonda avveniva attraverso gli occhi e il cuore. Ogni tanto, mentre suonava e cantava, il sonno prendeva il sopravvento e per un attimo si addormentava, poi subito si risvegliava e continuava a cantare. M’insegnò i rudimenti di raag Kamaj in poche lezioni. Stetti a Benares una settimana e poi partii per andare a Calcutta dove Sangeeta mi aspettava.
Ambientarmi in quella città non fu facile; andavo tutti i giorni a casa di Sangeeta e con lei la relazione era nettamente differente, nel sedermi di fronte a lei non sentivo la stessa carica emozionale che avevo provato con Pandit Hnuman Misra, era una cantante in carriera molto brava e molto giovane, una buona insegnante ma niente di più. Mi diede da praticare Raag Kafi e avevo spesso modo di cantare con amici tablisti che studiavano con il padre, con loro mi recai tre giorni a Dover Lane, dove si svolgeva una conferenza musicale annuale, lì si poteva assistere ai concerti dei migliori esponenti di musica e danza di tutta l’India ed ebbi modo di provare un esperienza unica e veramente speciale. Tornai in Italia con un bagaglio colmo di esperienza e conoscenza.